Mariacristina Bonti

Abstract

È opinione diffusa che la strada verso l’innovazione e la competitività sia per le piccole-medie imprese (PMI) se non preclusa, resa fortemente difficile a causa di una sorta di “peccato originale”: la loro ridotta dimensione. L’opinione espressa in queste note è che non sia la dimensione in sé a costituire un “problema”, ma sia il possesso di competenze organizzative a fare la “differenza”: le conoscenze e capacità d’intervento sulle variabili organizzative costituiscono infatti un fattore critico per la competitività e l’innovazione.

Questo articolo nasce da un intervento originariamente presentato al workshop Dinamiche psicologiche che favoriscono il successo organizzato da PerFormat a Navacchio (PI) il 28 marzo 2015 nell’ambito del ciclo Salotti dell’Innovazione.

Parole chiave (5-8): organizzazioni, piccole-medie imprese, innovazione, sviluppo, crescita, management, imprenditorialità, apprendimento

L’obiettivo di questo intervento, che trae spunto, raccoglie e prova a sintetizzare quasi quindici anni di studi e ricerche sulle piccole e medie imprese, molte di queste familiari e longeve (Bonti, Cori, 2011), è sostanzialmente duplice. Da un lato, quello di testimoniare la varietà del poliedrico universo delle PMI, refrattarie a qualsivoglia tentativo di “inscatolamento” all’interno di modelli precostituiti e più che mai orgogliose di rivendicare l’originalità delle loro peculiari connotazioni. Qualunque discorso si voglia fare sulle PMI da qui occorre partire, dalle loro peculiarità, che i racconti degli imprenditori sanno trasmettere con molta efficacia e insieme passione. Dall’altro, quello di riflettere su alcune condizioni che oggi più che mai costituiscono fattori necessari, fondamentali per sostenere la competitività delle PMI, una competitività sostenibile, concetto all’interno del quale troviamo il successo nel lungo periodo e l’innovazione, intesa come capacità di innovare ma anche di dare continuità all’innovazione, per riuscire a soddisfare sempre di più le esigenze di tutti i suoi stakeholder (Bonti, 2012).

Alla base della competitività si pongono, tra le altre, due questioni molto attuali: innovazione e dimensione.

L’attualità del tema “innovazione” sta nelle cose: quando si studiano i sistemi economici in generale e le organizzazioni in particolare, si analizzano processi che sono essenzialmente evolutivi, il cui impulso fondamentale, direbbe Schumpeter (1933), deriva dal fare cose nuove o dal fare cose già fatte in modo nuovo. Questo significa introdurre nuovi beni di consumo o una nuova qualità di un bene, o metodi di produzione o trasporto nuovi per il settore; entrare in nuovi mercati per un prodotto, individuare una nuova fonte di approvvigionamento di materie prime o semilavorati, attuare una riorganizzazione di una qualsiasi industria.

L’attualità del tema “dimensione” è invece frutto delle cose. A partire dagli anni ’70, praticamente fino ai nostri giorni, la questione dimensionale è stata al centro del dibattito sul nostro sistema economico e sul nostro modello industriale ed ha ruotato intorno alla PMI, o meglio alla domanda: “Qual è la dimensione che serve per ..?”. E la dimensione che “serve per” non è sempre stata la stessa. La dimensione che conta ha visto nel tempo in qualche misura mutare la propria natura, non solo in termini di grande e piccola, ma anche in termini di rete di relazioni che si possono instaurare. Dall’idea che “grande è bello” siamo infatti passati a quella che “piccolo è bello” (Schumacher, 1973), anche grazie e a seguito all’elaborazione di un modello organizzativo ed economico di sviluppo industriale nuovo, alternativo alla produzione di massa, il modello della specializzazione flessibile (Piore, Sabel, 1984). Dall’idea di dimensione legata alla crescita “interna” della singola piccola impresa, siamo passati ad un’idea di crescita “esterna”, che passa attraverso la creazione di relazioni tra piccole imprese (in passato dentro i distretti o aree territoriali ben definite o dentro i settori, oggi dentro le filiere e all’interno delle reti del valore, ampliando la rete del valore dell’impresa, cioè l’insieme di relazioni utili per il vantaggio competitivo che fanno capo all’impresa stessa) (Preti, 1990; Marchini, 1995).

Questi due temi sono sicuramente di grandissima attualità e, considerate le caratteristiche del nostro sistema industriale, sono indubbiamente collegati tra di loro, anche se forse il connubio innovazione-dimensione non è quello più giusto.

Quando si parla di dimensione in relazione alle PMI, si finisce sempre col cadere nel tema della crescita, della “necessità” per la piccola impresa di crescere. Su questo argomento si confrontano due differenti posizioni e prospettive teoriche (Preti, Puricelli, 2007). Da un lato, ci sono prevalentemente economisti, studiosi di storia economica, anche una discreta parte di sociologi, che, adottando una prospettiva macroeconomica, basandosi su analisi quantitative e facendo confronti con altri modelli di industrializzazione, ritengono che la piccola impresa debba necessariamente tendere alla media o grande dimensione. Esisterebbe pertanto una sorta di “one best way”, di modello organizzativo ottimo verso il quale tendere, incarnato dalle caratteristiche organizzative e gestionali della grande impresa. Dall’altro lato, ci sono invece gli aziendalisti, più orientati ad analisi microeconomiche, che guardano dentro le singole aziende, studiano caso per caso, alla ricerca dei tratti di originalità del modello italiano e con l’obiettivo di capire come rafforzarlo, migliorarlo, potenziarlo. Un modello italiano che, non va dimenticato, sono stati due ricercatori statunitensi, Piore e Sabel (1984), a riconoscere per primi e a teorizzare: gli studi di Beccattini (1987, 1999), Varaldo, Ferrucci (1996) e molti altri sono tutti successivi.

È evidente che non c’è una prospettiva “migliore” a priori, l’una come l’altra presentano punti di forza e di debolezza. Tuttavia, quando si osservano e si studiano le aziende “da dentro”, cercando appunto di capire come funzionano, è più facile cogliere quella “qualità” del sistema organizzativo – vale a dire delle sue risorse, delle competenze, dei comportamenti, dei valori, degli orientamenti, delle scelte e della loro combinazione – che si traduce, si può tradurre in “solidità” del fenomeno aziendale (Bonti, 2012). Guardando la PMI da questa angolazione interna, quella delle competenze, dei comportamenti, delle scelte e delle azioni che sono anzitutto “nelle mani” dell’imprenditore, è possibile cogliere come il problema della PMI non sia quello di crescere, ma di rafforzare/migliorare i propri tratti di originalità per raggiungere una condizione di maturità e solidità. Questo rafforzamento/miglioramento potrà anche portare ad una crescita dimensionale, ma successivamente, come conseguenza, senza che vi sia per questo un obbligo di crescita (arrivare alla media o alla grande dimensione).

Da questo punto di vista, allora, la relazione più significativa non è tra innovazione e dimensione, ma tra innovazione e crescita, un certo tipo di crescita. La questione della dimensione che conta per essere innovativi, competitivi, per avere successo è certamente interrelata con quella della crescita; il problema tuttavia non è la dimensione in sé (il numero di elementi o fattori da prendere in considerazione), sono i contenuti organizzativo-manageriali associati alla dimensione (la qualità di questi elementi, variabili e fattori). Quindi, il problema non è la dimensione ma il concetto di crescita: quando parliamo di successo, innovazione, competitività, qual è il concetto di crescita che conta?

Normalmente, come anticipato, si parla di crescita, intesa per lo più come aumento delle dimensioni della singola unità produttiva, misurata in relazione all’incremento di uno o più parametri quantitativi (valore assoluto del numero di dipendenti, fatturato, investimenti, quota di mercato).

Molteplici sono, a questo riguardo, le considerazioni che si possono fare.

Si può anzitutto riflettere sul fatto che crescere non significa per forza “ingrassare” o ingrandirsi (aumentare lo spazio fisico) ma anche allargarsi (estendere il proprio raggio di azione) e allungarsi (accedere a più circuiti informativi e cognitivi); vuol dire certamente diventare grandi, ma anche diventare adulti e maturi (Bonti, 2012).

Si può altresì considerare che esistono diverse vie per crescere (Preti, 1990; Marchini, 1995). Così ad esempio, gli ultimi decenni evidenziano alcuni trend per quanto attiene alle modalità della crescita aziendale, in parte anche favoriti dalla recente crisi. Da un lato si assiste, in alcuni settori/distretti, a processi di concentrazione: attraverso fusioni e acquisizioni si creano imprese di medie, medio-grandi dimensioni (ad es. nel Nord-Est). Dall’altro si diffonde la forma organizzativa a gruppo, nella quale più piccole imprese, spesso familiari, dotate di autonomia giuridica e contrattuale si conformano a direttive e politiche di gruppo decise dal vertice, ma mantengono una relativa autonomia operativa. In tal senso, la forma a gruppo consente di far fronte alla crescita dimensionale, al reperimento di risorse e mezzi finanziari e di mantenere la prerogativa del controllo e l’imprinting della gestione, pur diluendo le quote proprietarie. Dall’altro ancora, aumentano le collaborazioni, le partnership e le alleanze, come soluzione per affrontare le nuove criticità competitive (ad es. in Emilia Romagna, nell’automotive, nelle Marche). La consapevolezza è che in ambienti competitivi che richiedono flessibilità operativa e innovazione l’essere autosufficienti non è possibile, cioè non è conveniente, efficiente, efficace: l’alleanza (Costa, Gubitta, 2014) si configura, da un punto di vista organizzativo, come un meccanismo di coordinamento, apprendimento e generazione di conoscenza che può basarsi su norme sociali reciproche e stabili, come su meccanismi organizzativi deboli (la fiducia), oppure su contratti.

Si deve, comunque, aver chiare alcune cose. La crescita quantitativa è una questione di “spazio fisico”: come accennato in precedenza, ci si può ingrandire da dentro e/o allargarsi e allungarsi fuori, ma in ogni caso questa crescita è sovente un fenomeno asimmetrico. Le diverse parti dell’organizzazione crescono in modo diverso, spesso c’è ipertrofia di alcune aree aziendali (solitamente quelle più “vicine” e più “care” all’imprenditore) e assenza di crescita in altre. Quindi questa crescita spesso non è equilibrata e se non è equilibrata prima o poi si scopre che qualcosa manca o può mancare, prima o poi diviene fonte di problemi: l’azienda è un sistema, non è una parte, l’azienda non è la produzione, o il commerciale. L’azienda è l’insieme e occorre la capacità di vedere questo insieme, di cogliere le interrelazioni tra le parti, i “rapporti di causa-effetto concausa-effetto molteplice” (Giannessi, 1979) nella consapevolezza che ogni cambiamento di una parte genera effetti a catena in tutte le altre, seppure con “intensità” diversa e in “momenti” diversi.

Perché la crescita è anche una questione di “tempo”: non vuol dire solo diventare grandi ma anche, insieme, diventare adulti, diventare maturi. La crescita è sotto questo punto di vista un fenomeno asincrono: sussiste di fatto uno sfasamento tra la decisione di crescere e l’adattamento organizzativo alla crescita, tra tempi del cambiamento e tempi di assimilazione del cambiamento (ciò che si chiama anche shock organizzativo). Si parla di tempi dell’assimilazione del cambiamento, non tanto dell’implementazione: il termine implementazione spesso è causa di defocalizzazione, dà l’idea di essere già avanti, già oltre, quasi a posto. In realtà, dopo che formalmente è stato creato un nuovo modello organizzativo, le persone devono aver il tempo per assimilarlo, interiorizzarlo, farlo proprio. Durante questa fase di assimilazione e metabolizzazione, qualcosa inevitabilmente deve essere rivisto e corretto. Il processo di cambiamento è continuo, non si ferma con l’implementazione. Quindi, quella capacità, quella maturità cui si è fatto prima riferimento è anche e soprattutto quella maturità che serve per gestire questo orizzonte temporale, per far sì che non ci sia (eccessiva) ipertrofia da una parte e scarso sviluppo dall’altra.

La crescita che serve alle PMI è questa, è quella che interpretiamo, a cui diamo il significato di “sviluppo”, è il raggiungimento di una maturità che deve essere, anzitutto, quella dell’imprenditore sul piano del governo e della gestione aziendale e che conduce al miglioramento di talune variabili interne, delle condizioni interne di funzionamento del sistema aziendale

Ciò significa che alla base di qualsiasi dinamica dell’azienda (l’innovazione, la competitività, il successo, la stessa crescita dimensionale), ci deve essere una capacità di gestire la crescita. Allora la crescita è, sì, un fenomeno quantitativo ma è prima ancora un fenomeno qualitativo (Padroni, 1993): mentre quest’ultimo tipo di crescita, che chiamiamo sviluppo, deve aver luogo, la prima può anche non verificarsi.

Lo sviluppo si traduce in una nuova capacità dell’impresa di essere e stare sul mercato, che può eventualmente, ma non necessariamente, portare ad un incremento della dimensione aziendale. Da questa seconda accezione discende che, almeno nel breve periodo, può esservi sviluppo qualitativo senza aumento dimensionale, mentre fenomeni di crescita quantitativa tendono ad assumere carattere patologico se non sostenuti da uno sviluppo lungo una o più dimensioni qualitative o se realizzati a prescindere dalla storia e dalle competenze specifiche dell’impresa. In sintesi, si ribadisce, non esiste per le PMI alcun obbligo di crescita dimensionale, esiste semmai il dovere dello sviluppo: il problema delle PMI italiane non è la crescita, ma lo sviluppo.

Lo sviluppo aziendale della PMI è un percorso di vera e propria consapevolezza, di presa di coscienza della dimensione organizzativa e strategica dell’impresa: significa comprendere che la strategia è importante perché definisce dove l’azienda e l’imprenditore vuole andare, ma l’organizzazione non lo è di meno in quanto significa scegliere come raggiungere la destinazione voluta, avendo ben chiaro che ogni scelta e decisione presa oggi costituirà, nel bene e nel male, un vincolo alle scelte e decisioni del domani.

Le sfide che le PMI hanno di fronte sono certamente strategiche, competitive, innovative, ma sono sfide che sempre meno si giocano sul terreno “noto e presente” delle abilità tecnico-commerciali, tipicamente espressione della professionalità dell’imprenditore, e sempre più si giocano sul terreno “da scoprire” del possesso di competenze organizzative e abilità gestionali.

L’organizzazione capace di supportare la PMI nell’innovazione, nell’operare in un contesto internazionale, non è l’organizzazione “tradizionale”; le competenze che servono all’imprenditore non sono tanto o soltanto quelle “tecniche”, tradizionalmente in suo possesso, sono soprattutto quelle manageriali.

Strategie diverse richiedono configurazioni organizzative diverse, che a loro volta richiedono di presidiare attività altrettanto diverse in termini di contenuto, complessità, modalità di gestione (Padroni, 2007). In particolare, le abilità manageriali sono importanti non solo per favorire il corretto posizionamento dell’impresa, ad esempio in un contesto internazionale, ma prima e soprattutto per poter correttamente percepire le situazioni, valutarle e scegliere: in altre parole, sono importanti non solo per la corretta gestione delle sfide, ma prima ancora per la loro corretta individuazione.

Indubbiamente, la nascita e il primo sviluppo di un’impresa ruotano intorno alla vocazione e ai comportamenti dell’imprenditore. Spesso, l’imprenditorialità è vista come sinonimo di creatività e innovazione e si associa alla capacità di tollerare elevati livelli di rischio. Gli imprenditori sono spesso definiti come audaci visionari, persone spinte dalla passione, animate da un sogno, capaci di connettere ciò che non ha alcun senso, ossia di mettere in relazione due o più concetti apparentemente scollegati, di prendere due o più cose totalmente diverse e di unirle in modo nuovo, generando un effetto sorpresa sul mercato (Bonti, 2012). Da questa prospettiva però, l’imprenditorialità come l’innovazione diventano un fatto personale, una qualità personale che possono stare fuori o dentro i confini dell’organizzazione, ma che non sono facilmente “governabili”.

La forma d’impresa che organizza le “doti” e “l’impegno” dell’imprenditore-persona non può che avere alcune caratteristiche: tendenzialmente accentrata, perché l’intuito imprenditoriale, la creatività e la visione sono caratterizzate da ambiguità causale, si manifestano nella gestione aziendale e nei risultati economici, ma non sono facilmente codificabili in procedure e prassi operative; tendenzialmente poco formalizzata, perché i processi di innovazione per definizione seguono traiettorie non lineari e non prevedibili; è la forma organizzativa che si adatta ai sentieri dell’innovazione ed è per questo che i livelli di formalizzazione delle strutture organizzative, dei sistemi operativi e dei ruoli aziendali si mantengono bassi; tendenzialmente instabile, perché lo spirito imprenditoriale non è trasferibile: l’impresa è l’imprenditore, e viceversa.

Se lo sviluppo degli assetti organizzativi rimane a questo livello, è difficile che l’impresa possa crescere: lo sviluppo e il consolidamento di un’opportunità imprenditoriale non è solo funzione delle doti individuali dell’imprenditore, ma anche della sua capacità di raccogliere informazioni, di organizzare e valorizzare le esperienze antecedenti, di far fronte all’incertezza. È per questo che servono adeguate strutture organizzative, per ampliare il ventaglio delle scelte e per prendere decisioni.

Questo vuol dire che ai fini dello sviluppo ed eventuale crescita dell’azienda, in una prospettiva di medio-lungo periodo, la differenza nell’innovazione, nel successo, nella competitività non la fa (sol)tanto l’idea creativa, quanto la capacità organizzativa e gestionale di implementarla, cioè la capacità di individuare prima e gestire poi il complesso di cambiamenti che servono all’impresa. In tal senso, quando l’azienda si trova avanti nel proprio ciclo di vita, la struttura organizzativa non è più ancillare rispetto alla creatività e innovazione, ma diventa lo strumento per dare ordine alle idee e alle motivazioni dell’imprenditore (Bonti, 2012).

Sotto questo profilo, l’evidenza empirica mette in evidenza che le forme organizzative che hanno accompagnato e favorito condizioni di successo stabile e duraturo per le PMI, familiari e non, presentano alcune caratteristiche (Bonti, Cori, 2001, 2002):

–       un mix variabile di accentramento e decentramento;

–       lo sviluppo di competenze organizzative, della capacità di comprendere e gestire la variabile organizzativa (Bonti, Cori, 2006);

–       lo sviluppo di processi di apprendimento organizzativo.

Un mix variabile di accentramento (della funzione imprenditoriale e delle scelte strategiche) e decentramento (delle decisioni tattiche e operative) implica la creazione di una squadra manageriale (un comitato di direzione come spesso viene chiamato) attorno alla figura dell’imprenditore (Preti, 1990; 1996a), permette di risparmiare energia direzionale da dedicare alla formulazione strategica, comporta strutturare in modo diverso i processi decisionali. La crescita si accompagna, richiede, comporta la ridefinizione del ruolo del leader dell’impresa e il contemporaneo avvio di processi di delega e responsabilizzazione.

Il ruolo dell’imprenditore, come già evidenziato, non può rimanere stabile nel corso del tempo, l’impresa necessita via via di ampliare il proprio portafoglio di competenze, di avere persone in grado di apportare/sviluppare, secondo i casi, “nuovo sapere” e “nuovo saper fare” in qualche misura specialistico in relazione a determinate aree di attività, non direttamente presidiate dall’imprenditore (o dalla famiglia) ma che devono essere presidiate per gestire la complessità del business.

Via via che la PMI si muove lungo il proprio ciclo di vita, si assiste ad un gap cognitivo che la managerializzazione della gestione (la formazione appunto di una squadra di collaboratori in possesso di un set di competenze organizzative e gestionali attorno e a supporto dell’imprenditore) contribuisce a colmare, assicurando all’impresa di avere insieme un timone (qualcuno che sa stare al timone) e una rotta da seguire.

Da un punto di vista pragmatico, tutto ciò si può sintetizzare in una parola: un fabbisogno di delega (Preti, 1996a). La delega è spesso percepita come un passo doloroso di perdita di qualcosa (il controllo), di privazione di qualcosa (il divertimento di fare le cose operative). Raramente si comprende come essa possa invece essere per l’imprenditore un modo “diverso” di controllare e divertirsi.

La delega è un processo di decentramento decisionale, di attribuzione a terzi di prerogative decisionali, di formazione e apprendimento per il delegato e il delegante, che deve essere accompagnato e messo nelle reali condizioni di prendere le decisioni (delega, quindi, non pseudo-delega). La delega rende necessaria la definizione/esplicitazione di alcune regole organizzative, riguardanti chi prende le decisioni, su quali aspetti e in relazione a quali problematiche; i criteri di selezione dei profili, di ricompensa, le modalità di controllo, un controllo che si allontana dalla tradizionale supervisione dei comportamenti, per spostarsi alla valutazione dei risultati. La delega comporta questo spostamento: da un controllo quotidiano su quello che si fa e deve essere fatto “come dico io”, a un controllo nel quale invece si individuano e assegnano obiettivi e, attraverso un processo di condivisione di informazioni e apprendimento, si porta il collaboratore a diventare autonomo. Queste sono competenze organizzative.

La delega, lo sviluppo di competenze organizzative e di sistemi operativi sono momenti centrali nella crescita qualitativa della PMI. Ma quali strumenti di gestione deve acquisire l’imprenditore? È ovvio che non servono “tutti” i sistemi operativi di gestione, quanto meno non subito, e nemmeno servono strumenti sofisticati. Quelli che servono e devono essere anzitutto acquisiti attraverso un percorso progressivo di arricchimento sono gli strumenti di supporto alla delega, che aiutano a guidare i comportamenti, definendo e chiarendo l’obiettivo, a comunicare e a trasmettere le informazioni per esercitare il controllo, a motivare, valutare e premiare. Dunque, le competenze organizzative legate al funzionamento dei sistemi operativi sono una seconda importantissima area nella quale le piccole imprese devono imparare a muoversi.

Questi due passaggi sono fondamentali, perché servono a liberare l’imprenditore dalla logica delle “urgenze” e a riportarlo alla creatività, che non è la creatività dell’avere un’idea e realizzarla, ma quella di collocare, di spostare la collocazione dell’azienda all’interno del proprio mercato, del proprio ambito competitivo, di portarla ad approcciarsi a nuove sfide. Questa idea di creatività, quindi, ha meno a che fare con una dimensione di “manualità”, con lo “sporcarsi le mani”, non ha limiti, è divertente (dall’etimologia della parola: de-vertere che significa volgere altrove).

Equilibrio tra competenze imprenditoriali e manageriali significa far evolvere la struttura organizzativa e pervenire ad una progressiva ma consapevole integrazione di strumenti e tecniche di gestione e controllo, tipici della grande azienda, tra i tradizionali tools gestionali dell’imprenditore. Sotto questo secondo aspetto, è comune convincimento che nel suo processo di sviluppo l’azienda “minore” non possa non essere interessata da una più accentuata articolazione strutturale, una ricerca di corrispondenza tra funzioni e competenze, una maggiore chiarezza nell’attribuzione di autorità e responsabilità, una diffusione delle prerogative decisionali. Sembra evidente come il raggiungimento degli obiettivi suddetti non possa ottenersi se non in presenza di una dinamica “virtuosa” del ruolo e della cultura imprenditoriali, senza che questo significhi disconoscere competenze e valori all’origine del successo aziendale.

La capacità di innovare di un’azienda in generale e della PMI in particolare passa attraverso la capacità di cogliere e riconoscere la complementarità tra i diversi volti dell’innovazione: certamente di prodotto o di processo, ma anche organizzativa e gestionale, ciò che si traduce in un cambiamento del modo di fare imprese e di essere dell’impresa.

In questo senso, sviluppare le capacità organizzative significa acquisire consapevolezza delle opportunità e dei rischi connessi a ciascuna soluzione strutturale e di organizzazione del lavoro, arrivare a far “maturare”, per poi progressivamente formalizzare, la personnel idea, infine, acquisire capacità direttamente riferibili alla costruzione e al presidio di relazioni interorganizzative (Bonti, Cori, Palazzolo, 2012). A queste, in particolare, non dovrebbe essere attribuito un valore secondario o residuale rispetto a quelle inerenti l’organizzazione interna. In relazione al primo punto, le imprese “minori” sono state più volte indicate come una sorta di “laboratorio organizzativo” (Padroni, 2007), in grado di sperimentare modalità originali e sconosciute alla grande dimensione, talvolta senza una piena consapevolezza della loro portata innovativa e dunque del vantaggio competitivo che poteva essere grazie a questo acquisito. Con riferimento alla gestione delle risorse umane si è spesso ritenuto – a torto o a ragione – che carenze nella sistematizzazione o incoerenze nell’utilizzo dei vari strumenti allontanassero le imprese stesse da condizioni di eccellenza. Infine, se alle imprese “minori” è stata in genere riconosciuta una capacità distintiva di sviluppare e rafforzare nel tempo una varietà di rapporti sul territorio, non di rado difficoltà e titubanze continuano a caratterizzare i processi volti alla costituzione di reti globali di relazioni.

Infine, con i concetti di presidio e sviluppo dei processi di apprendimento organizzativo si fa riferimento ad alcune principali esigenze (Bonti, 2012). Anzitutto si rileva la necessità di rendere meno occasionali e soprattutto individuali tali processi di apprendimento, di diffondere e potenziare la capacità di trasformare quote crescenti di conoscenza tacita (dell’imprenditore come dei suoi collaboratori) in conoscenza codificata. Ciò risulta strettamente collegato al raggiungimento dei primi due obiettivi enunciati, potendo beneficiare sia di una progressiva familiarità con strumenti formali di gestione dell’informazione, sia del consolidamento di pratiche organizzative che indirettamente supportino la dinamica conoscitiva, sia ancora del perfezionamento e dell’ esplicitazione delle linee guida nella gestione della risorsa umana. Da ultimo, per quanto riguarda l’ampliamento dei circuiti dell’apprendimento, questo sembra legarsi “naturalmente” ai processi di internazionalizzazione e quindi alla quantità, qualità e varietà di relazioni che l’impresa può intrattenere con mercati finali o di approvvigionamento diversi.

In sostanza, quale sintesi di queste breve riflessioni, si può ulteriormente sottolineare come per le PMI la competitività sostenibile, l’innovazione, il successo passano più attraverso lo sviluppo di competenze organizzative, che non attraverso la crescita dimensionale. Le competenze organizzative, come si è cercato di illustrare, fanno riferimento all’insieme di conoscenze, capacità, sensibilità e consapevolezze relative all’intervento sulle variabili organizzative quale fattore critico di successo e sviluppo aziendale; competenze queste che sono apportate da singoli soggetti – in primo luogo dall’imprenditore – ma che col tempo, grazie a processi virtuosi di trasformazione della conoscenza individuale in conoscenza dell’organizzazione, si sedimentano in quel patrimonio di competenze distintive delle PMI, in grado di consolidare il vantaggio competitivo.

Saper gestire, imparare a gestire la dimensione organizzativa diviene oggi più che mai, per i piccoli imprenditori, l’area di competenza in grado di fare davvero la “differenza”. La minore dimensione porta le aziende ad acquisire tratti di originalità tali da non poter semplicemente considerare le PMI una “variazione di scala” rispetto alle grandi imprese. Ciò che rileva, infatti, non è tanto il numero degli elementi, fattori, variabili da prendere/non prendere in considerazione, quanto la loro qualità. Non può essere assolutamente dato per scontato il fatto che la problematica organizzativa e gestionale delle PMI, in quanto tali, sia “per definizione” caratterizzata da un livello di complessità inferiore rispetto alla grande impresa risultando, non di rado, invece notevolmente superiore per una diffusa carenza di più solide competenze organizzative, quindi di adeguati strumenti di gestione.

La struttura organizzativa, i meccanismi operativi, l’organizzazione del lavoro sono e possono divenire “sostituti” dell’imprenditore, in grado di assorbire le problematiche legate alla quotidianità e alle “urgenze operative”, in modo da lasciargli il tempo e lo spazio per guardare e dedicarsi a ciò che è davvero importante; vale a dire, per tornare a pensare, avendo però alle spalle un sistema capace di dare realizzazione e implementare il principale prodotto della creatività imprenditoriale: l’innovazione.

 

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Mariacristina Bonti è Professore Associato di Organizzazione Aziendale presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa. Negli ultimi anni si è occupata di ricambio generazionale e di processi innovativi nelle piccole imprese familiari.