La crescente competizione nei contesti economici pone al centro del dibattito aziendale il ripensamento di alcuni ruoli organizzativi e la gestione delle persone: non più solamente gestire, ma vedere, favorire e allenare connessioni e incentivare la collaborazione. Di conseguenza, anche la valutazione del personale subisce un cambiamento: si sposta dal piano prettamente individuale e delle singole performance a quello di gruppo. Si parla allora di comportamenti organizzativi coerenti, proattivi, di tipo relazionale. Così come si parla molto di intelligenza emotiva. In altre parole, la direzione è quella dell’intelligenza organizzativa collettiva, capace di attivare scenari e di riconoscere l’importanza dell’evoluzione e dell’apprendimento quali caratteristiche e valori fondamentali.
Sembra tutto abbastanza chiaro. Tuttavia, per verificare se un tale spostamento dal singolo al gruppo sia davvero in atto un utile strumento è quello dell’errore. Che atteggiamento si ha con una persona che sbaglia? Quali sono i presupposti culturali grazie ai quali reagiamo ad un errore? Chiudersi nel proprio mondo, affidandosi al già conosciuto (ciclo chiuso) oppure attivare la cultura del ciclo aperto, dell’apprendimento continuo e delle opportunità di crescita? La risposta può sembrare ovvia, ma fino a un certo punto.
Come ovvia (forse) è la scelta tra autorità e autorevolezza, tra dogmatismo e apertura mentale. Ma non ci illudiamo. Spesso la riposta più positiva e incoraggiante la riconosciamo a livello razionale ma non emotivo. E questo è un problema, ovvero un ostacolo da oltrepassare. Come anche le gerarchie sociali intese in senso negativo: pensiamo all’infermiere di fronte al medico, al copilota e al pilota, al dipendente e all’imprenditore. In questi casi entrano in campo la cultura di riferimento, l’educazione all’assertività e il senso di colpa, legato, quest’ultimo, al modo di considerare gli errori e i fallimenti – come opportunità o come eventi da nascondere. Per non parlare della dissonanza cognitiva, quel comportamento che mettiamo in scena quando ad essere minacciate sono le nostre convinzioni, per cui attiviamo meccanismi di difesa, come la rimozione e/o la negazione. Ci sono, poi, altri modi per mettercela tutta a non crescere: l’autoconvizione e l’autoassoluzione – gli eventuali errori vengono ridefiniti fino a fargli perdere il loro significato. Del resto, a volte, la realtà è troppo dura. Più si sale nella gerarchia organizzativa più aumentano le responsabilità e in modo transitivo aumenta anche la possibilità di attivare la dissonanza cognitiva rispetto agli errori.
Ma come si fa allora a progredire? Uno degli aspetti fondamentali è attivare l’adattamento cumulativo, quel processo grazie al quale la memoria storica di eventi e fatti, sia positivi che negativi, permette di costituire un bagaglio di esperienza che facilita il percorso verso la resilienza, l’antifragilità e la collaborazione. Un altro modo è favorire processi di bottom-up, di auto-organizzazione rivedendo di conseguenza la cultura della leadership. Infine, la contro-fattualità: favorire processi di ipotesi e di discussione per vedere e pensare scenari possibili rispetto a un evento già successo oppure a uno non ancora verificatosi. In questo caso si stimola la creatività che, insieme alla comunicazione efficace, sono i motori del successo e della crescita. Incidendo così sui bilanci aziendali. Di aiuto è una mentalità dinamica che permette di vedere i bias per quelli che sono e facilita lo sviluppo anche della parte più solida di un’organizzazione – la cultura e favorisce la collaborazione.
Siamo figli di una tradizione scientifica che ci ha insegnato a spezzettare i problemi e i contesti per studiarli meglio; non sempre però il metodo scientifico si applica bene al mondo degli uomini, quello delle relazioni e degli affetti. A questo proposito, relativi al tema della collaborazione in questi giorni sono usciti molti articoli interessanti. Uno dedicato all’ultimo libro del filosofo francese Edgar Morin, un altro è sul lavoro di squadra e un altro ancora incentrato sulla tecnologia e sul mondo digitale a partire da una intervista a Luciano Floridi.
Che cosa hanno in comune? E in che modo possono essere utili alle organizzazioni? Il primo articolo mostra come Morin esorti a fare della fraternità lo scopo del vivere insieme. Il secondo articolo presenta una ricerca di Brian Hare e Vanessa Woods, ricercatori del Center for Cognitive Neuroscience della Duke University: “le specie sopravvivono basandosi sulla cordialità, collaborazione e comunicazione”. Infine, il terzo affronta il tema della cultura digitale: “L’internet che conosciamo è a immagine e somiglianza di chi ha avuto il potere di plasmarlo, sarebbe un grande errore farne un assoluto e confonderlo con il digitale tout court. La cultura digitale ci insegna invece che l’io viene dopo il tu. Noi siamo l’esito delle relazioni che ci legano agli altri”, dice Floridi.
Fraternità, lavoro di squadra, cultura digitale, relazioni. Quattro concetti che ancora una volta vengono discussi, presentati e indicati come fondanti. Tuttavia, quando si arriva a passare dalla discussione teorica alla messa in pratica sorgono immancabilmente miriadi di problemi e resistenze di ogni tipo. In ogni settore. Compreso quello delle organizzazioni e delle aziende. Perché? Quali sono gli aspetti che entrano in gioco? Per mettere in pratica quei quattro concetti è necessario essere formati per farlo, significa, cioè, saper riconoscere l’opportunità di evoluzione del sistema in cui viviamo e/o lavoriamo, anche perché il sistema comunque evolverà, con oppure senza la nostra attività diretta. Quindi, tanto vale cogliere l’opportunità riconoscendola appunto per ciò che è, un’occasione evolutiva e non considerandola solo un ostacolo al mondo stabilito, una minaccia allo status quo. Se scegliamo la strada della “minaccia” compiamo uno degli errori più fatali: consideriamo il mondo più semplice di quello che è in realtà. Attraverso il meccanismo della “fallacia narrativa”, che porta alla semplificazione, scegliamo di considerare un’azienda come una macchina che deve essere guidata con mano ferma; oppure, scegliamo di “provare” a fare dei cambiamenti, consapevoli che non ci crediamo fino in fondo. E allora, che fare?
Forse è il caso che ci fermiamo un attimo. Dalla teoria alla pratica; dal pensiero all’azione; dalla speculazione alla praxis. Dicotomie su dicotomie. Che fanno perdere di vista ciò che appare in piena luce: non possiamo non essere in relazione. Questo è l’assunto di base. Comunichiamo, collaboriamo e pensiamo insieme. E’ inevitabile. Ma allora dove sta il problema? Bene, sta nel “come lo facciamo”. E’ sulla modalità che dobbiamo riflettere. Riconoscendo, magari, anche i nostri limiti, fatto che ci porta di fronte alla necessità di formazione continua e di collaborazione.
Bibliografia
M. Dotti, Edgar Morin: «Le solidarietà sociali non nascono per legge», 20 luglio 2020.
http://www.vita.it/it/article/2020/07/20/edgar-morin-le-solidarieta-sociali-non-nascono-per-legge/156254/
C. Fuschetto, Umanesimo dell’altro bit: intervista a Luciano Floridi, 9 agosto 2020.
https://www.scienzainrete.it/articolo/umanesimo-dellaltro-bit-intervista-luciano-floridi/cristian-fuschetto/2020-08-09?fbclid=IwAR2FDKhtHKu45l7PIJrN2wi87BlO2FrusjWh90Z6JapohAsID1rMPw6GoWs
D. Kahneman, Pensieri lenti e veloci, 2013.
M. Musso, Secondo alcuni scienziati la chiave dell’evoluzione è il lavoro di squadra, 12 agosto 2020 (su wired.it).
M. Syed, Se sbagliamo ci sarà un perché. Il rivoluzionario metodo per imparare dai propri sbagli, 2017.
Giacomo Brucciani
Docente nei percorsi di formazione di PerFormat Business. Si è laureato in Filosofia e ha un dottorato in Storia.
Scrivi un commento